segunda-feira, 25 de julho de 2011

Il pensiero politico di Aristotele

Il singolo individuo non basta a sé stesso. La sua natura lo porta ad unirsi sia con la donna sia con altri suoi simili. L'unione con la donna fa nascere la famiglia, che ha il fine di soddisfare i bisogni quotidiani. Ma nemmeno la famiglia basta a sé stessa ed è quindi naturale che più famiglie si associno per dar vita ad un villaggio, il cui fine è superiore alla famiglia perché da maggiore sicurezza e può provvedere alla difesa da attacchi esterni.
Epperò, poiché il fine dell'uomo non è solo quello di sopravvivere, ma di vivere bene, cercando di realizzare i propri desideri e la felicità, ecco che né la famiglia, né il villaggio posson bastare, ecco che il villaggio si ingrandisce, o si unisce ad altri villaggi, insomma: ecco la città, la polis, che non è solo un agglomerato di case e famiglie, ma qualcosa di più ampio e profondo.
Alla base di questa tendenza comune, secondo Aristotele, è la natura dell'uomo, che è socievole, e che è fatto per vivere nelle città. Per questo lo chiama anche animale politico. Fuori delle città possono vivere solo le bestie, e gli agricoli od i pastori (ed i nomadi) dei quali Aristotele non aveva una grande opinione. Oppure gli dei, perché autosufficienti.
La parola che lega ed insieme da un senso alla vita in città è lògos: ragione e discorso, ragione discorsiva e dialettica; diverso è il lògos dal muggito e dal grugnito di un animale, una 'voce' che può esprimere solo piacere e dolore. Il lògos consente di discutere su cosa è giusto ed ingiusto, bene o male. Solo attraverso il lògos si perviene all'amicizia tra gli uomini, quindi alla collaborazione, alla giustizia distributiva e correttiva, allo scambio economico.
In altre parole: la città, come società politica, si fonda sulla natura umana, la quale non è solo l'istinto del primitivo, anzi non lo è più, da quando l'uomo ha imparato a vivere nelle città. Nel suo pieno sviluppo, la natura umana è dunque città come civiltà, termine che tuttavia Aristotele non conosce ancora, ma che certo esprime meglio di ogni altro il concetto di polis maturato nel filosofo.

La famiglia Prima di studiare il tema della città, Aristotele trova giusto esaminare a fondo il problema della famiglia, l'òikos, che significa casa, guardando in particolare a quello che è il problema di fondo di tutte le case e la famiglie, quello di procurarsi il necessario per vivere bene. Praticamente, questo ragionamento, oikonomia, o governo della casa, rappresenta il luogo di nascita della scienza economica, anche se il significato inteso da Aristotele è diverso da quello moderno, perché limitatato al procurarsi il necessario per vivere bene e non all'accumulo di ricchezze.
Il primo punto indagato è quello dei vari rapporti esistenti nella famiglia. Ve ne sono tre fondamentali: quello tra marito e moglie, quello tra genitori e figli, quello tra padrone e schiavi. E' molto importante avere chiara la natura di questi rapporti perché essi, in qualche modo, servono da pietra di paragone per i rapporti sociali più ampi nella società politica.
Il rapporto tra uomo e donna è, per Aristotele, una relazione tra liberi ed uguali, dove però la donna manca di autorità ed è quindi giusto che sia l'uomo a comandare. Il rapporto tra genitori e figli è diverso perché i figli non solo mancano di autorità, ma anche della necessaria esperienza del mondo: è quindi un rapporto tra disuguali il quale giustifica il comando dei genitori in quanto viene fatto nell'interesse dei figli.
Infine vi è il rapporto tra padrone e schiavi, dove il padrone comanda ed il servo deve obbedire e dove è anche chiaro che il comando ha per oggetto il solo interesse del padrone e dei suoi familiari, non quello dello servo.

La schiavitù Il problema della schiavitù costituisce un punto controverso nella filosofia politica di Aristotele perché, se da un lato è evidente che gli va il merito di aver affrontato la questione in termini problematici, è anche vero che egli finisce per giustificare la schiavitù in base a due criteri ampiamente discutibili. Il primo è che essa è necessaria in quanto serve a svolgere lavori di fatica indegni di un uomo libero ed il secondo è che lo schiavo è servo per natura. La sua soluzione è che la schiavitù è giusta quando, in sostanza, sono schiavi coloro che non sanno condursi da sé. Non considerando che questa incapacità è un effetto della condizione servile e non la sua causa, egli rovescia ideologicamente i termini del problema e finisce quindi col fornire una difesa del sistema vigente, sostanzialmente iniquo e disumano.
 Agora Greca

Tale considerazione poggia anche sulla persuasione, peraltro comune a molti greci ed a molti filosofi, che sia i barbari occidentali (dotati di forza fisica ma privi di intelligenza) che gli asiatici (in particolare i persiani, dotati di intelligenza ma privi di coraggio) siano inferiori ai greci, capaci di unire forza ed intelligenza e per questo più liberi e compiuti, per natura, quindi più adatti a condursi ed autodisciplinarsi.
Ciò detto, rimane il fatto, implicito, che la condizione dello schiavo familiare, quella esaminata espressamente da Aristotele, era certo largamente preferibile a quella degli schiavi impiegati nelle miniere e nei lavori pubblici, oppure da artigiani nelle piccole manifatture. Per quanto lo schiavo sia considerato al più come "strumento animato" (sono esattamente le parole impiegate da Aristotele), lo schiavo di famiglia è comunque molto più di un semplice attrezzo di lavoro, in sostanza è un parente povero ed utile che, una volta svolto il servizio, è comunque esentato dal preoccuparsi eccessivamente dei problemi di sopravvivenza. A tutto provvede il padrone.

L'economia o crematisticaIl padre-padrone, capofamiglia è la figura centrale della società politica descritta da Aristotele. Essendo la massima autorità della famiglia egli deve provvedere al suo mantenimento e conoscere a fondo l'arte degli acquisti, la crematistica (da chrèmata, che significa gli averi). Questa sapienza particolare è indispensabile per il buon vivere e regge l'indispensabile attività dello scambio dei beni che è uno dei motivi principali del costituirisi delle città. Ma a questo tipo di sana crematistica, si oppone la sua degenerazione che è l'accumulazione di beni e denaro, che Aristotele considera ingiusta e vergognosa, indegna di uomini liberi ed equilibrati. E' questa crematistica la vera economia moderna, che tuttavia origina proprio dalle città, dallo sviluppo dei mercati e dalla nascita di un capitalismo mercantile antico.
Non tutti lo sanno, ma la prima distinzione tra valore d'uso e valore di scambio di un oggetto, categorie ampiamente usate da Marx, risalgono ad Aristotele, che ne svolse un acutissimo esame.
Le città e le loro costituzioni
La domanda fondamentale che si pone Aristotele circa la costituzione politica di una città è quale sia la migliore. In tal senso sappiamo che prima di formulare un giudizio impegnativo egli raccolse 158 diverse costituzioni analizzandole minuziosamente insieme ai suoi allievi. Purtroppo questo prezioso lavoro di ricerca storico-politica è andato perduto e rimane disponibile la sola costituzione degli ateniesi. Oltre che studiare le costituzioni realmente esistenti, Aristotele prende anche in esame gli scritti di Platone, in particolare Repubblica e Le leggi, contestandole in grande misura.
Secondo Aristotele, Platone sbagliò nel proporre l'abolizione della famiglia e della proprietà privata, perché si tratta di disposizioni naturali, e perché oltretutto la proprietà è indispensabile alla famiglia per mantenersi.
Anche Le leggi, che pure ammettono l'esistenza della famiglia, sono criticabili perché tendenti ad instaurare un'oligarchia, cioè il governo di pochi cittadini in una formulazione in cui prevale per la gran massa solo l'obbligo dell'obbedienza, mentre sembra escluso il diritto alla partecipazione.
Su queste basi, Aristotele riprende la classificazione delle varie costituzioni attingendola dal Politico, dialogo platonico molto importante, nel quale era stato introdotto il concetto di governo a seconda di chi lo esercita: se uno, se pochi, se molti.
La bontà di un qualsiasi governo non è data dal sistema, ma dal suo grado di degenerazione. Il regno (cioè il governo di un re) ha la sua degenerazione nella tirannide, l'aristocrazia (cioè il governo dei migliori per merito) decade nell'oligarchia (cioè il governo dei ricchi indipendentemente dal merito), e la politìa nella democrazia, che è spesso sinonimo di demagogia. Col termine politìa Aristotele intende la "costituzione" ideale per le città più sviluppate, dunque la più adatta a città come Atene, "società di liberi ed uguali". La politìa è di fatto la città nella quale tutti i capifamiglia possono partecipare al governo della città mediante l'elezione ed il sorteggio delle cariche e delle magistrature e deliberare nelle assemblee, come appunto accadeva ad Atene..
Secondo Aristotele, che tuttavia non esprime preferenze in modo esplicito per un sistema o per l'altro, ma insiste su quale sia il più adatto ad ogni città e popolazione, la politìa è un buon sistema in quanto realizza una mediazione tra due difetti opposti, l'oligarchia e la democrazia, la quale è una sorta di dittatura dei poveri, che sono generalmente una moltitudine portata agli eccessi ed alla litigiosità. In sostanza, secondo Aristotele, la politìa, esprime gli interessi della classe media e questa è una garanzia di moderazione e tendenzialmente di buon governo, e di giustizia distributiva. A questo proposito c'è da notare che per giustizia distributiva Aristotele non intende la distribuzione delle ricchezze, ma la distribuzione delle cariche e degli oneri fiscali. C'è giustizia distributiva quando tutti gli uomini liberi possono accedere alle cariche pubbliche e pagare le tasse in egual misura nell'interesse della città e non per arricchire ulteriormente gli oligarchi.
L'altra forma di giustizia considerata da Aristotele è la giustizia correttiva, la quale ha il compito di punire i reati e risarcire i danneggiati da azioni prepotenti o delittuose.
La stabilità delle costituzioniSecondo Aristotele, la politìa rappresenta in assoluto la costituzione più stabile, perché è la meno esposta ai cambiamenti rivoluzionari, molto più possibili in regimi oligarchici e democratici in senso deteriore. Le rivoluzioni si rendono inevitabili quando il popolo è oppresso da gravi ingiustizie ed i "buoni" capifamiglia sono esclusi dalle cariche e dagli onori della città. Una grave offesa all'onore ed alla dignità dell'individuo può provocare reazioni ancora più violente di quelle originate dalla penuria e dall'indigenza. Purtroppo, non sempre le rivoluzioni portano ad un ordine migliore del precedente. Per dimostrare i rischi delle rivoluzioni, Aristotele non esita a ricorrere a diversi esempi storici di oligarchie trasformate in "democrazie" che oggi definiremmo repubbliche delle banane.
Tuttavia, in un celebre passo, lo stesso Aristotele critica aspramente quelle forme di conservatorismo che fondano i loro argomenti sul buon vecchio tempo antico e sulla presunta superiorità delle costituzioni originarie. Anche queste avevano dei vizi, che poi si sono perpetuati ed amplificati, come nella costituzione spartana, che si incaricava solo di opprimere l'uomo e lasciava l'altra metà del mondo, cioè l'universo femminile, senza regola e senza legge, favorendo così la licenziosità e la lussuria più sfrenata, che fu uno dei motivi della degenerazione della famiglia e quindi dello stato spartano.
In realtà, per Aristotele, c'è solo un modo per garantire la stabilità: quello del "buon governo" cioè un modo di comandare che sia finalizzato alla felicità dei cittadini anziché all'interesse di chi governa. In sostanza questo è il fine del governo e tale dovrebbe essere sempre. Secondo Aristotele, la città più felice (dove il termine non va frainteso in senso moderno) è quella armoniosa e pacifica che realizza l'ideale del tempo libero a disposizione dei capifamglia, i quali potranno così dedicarsi alle attività teoretiche che sono le sole che realizzano l'uomo nella sua integrità.
Ciò non significa che il darsi alla politica sia disdicevole, tutt'altro, essa è l'attività più nobile dopo quella teoretica, ma deve essere svolta in modo disinteressato, rivolta al bene di tutti, e non solo al bene egoistico. In alcuni passi si ha però la sensazione che Aristotele consideri l'attività politica, cioè il partecipare alle assemblee ed a svolgere le cariche e le magistrature più come un dovere (e quindi un obbligo per diversi aspetti fastidioso) che un diritto ed un piacere. Per questo egli applaude alla turnificazioneateniese, dove il servizio politico, non diversamente dal servizio militare, è svolto solo per periodi limitati.
Si tratta, come si vede facilmente, di una concezione che muove dalle persuasioni etiche di Aristotele, più che da considerazioni oggettive sulle tensioni e sui conflitti della società reale e sulla psicologia degli individui concreti.
In generale, dunque, Aristotele vide nell'attività politica più un mezzo che un fine in sé. Il mezzo per realizzare una società pacifica, non aggressiva, anche se in grado militarmente di difendersi da aggressioni.
L'ideale panellenicoLa ricerca storica non è finora stata in grado di determinare con esattezza quanto fossero in qualche modo giustificate le accuse rivolte ad Aristotele in quanto simpatizzante dei macedoni e sostenitore dell'unità della Grecia sotto l'egemonia di Alessandro. E' evidente dalla lettura dei testi di Politica, che egli nutriva per iscritto convinzioni del tutto diverse. Quando parla di barbari, parla anche di macedoni, quando proclama la superiorità del modo di vita ed organizzazione del mondo greco su quello occidentale ed asiatico, ha in mente soprattutto il tema della libertà che in questi mondi è piuttosto relativa in quanto non esistono cittadini con diritti, ma solo sudditi obbligati ad obbedire, pena la morte. Da queste convinzioni profonde, sembra piuttosto problematico estrarre un logico sostegno alla politica filomacedone, se non come assunzione del minore dei mali in una situazione precaria ed instabile.
Il vero ideale di Aristotele era una Grecia federale, capace di mettere fine alle discordie intestine per procedere ad un dominio del mondo non di tipo militare ed aggressivo, ma di tipo culturale e civile. Il modello era fornito dalla società politica ateniese, quella che Aristotele stimava maggiormente e nella quale vedeva una concreta speranza.

L'educazione pubblica Secondo Aristotele, l'educazione (paideia) è fondamentale nell'addestramento del cittadino alle virtù etiche e dianoetiche. Pertanto è bene che il legislatore abbia a cuore questa problema perché solo un uomo virtuoso potrà essere un buon governante nel tempo che verrà, od anche solo un buon governato, cioè un buon cittadino..
«Passando quindi a determinare come deve essere tale educazione, Aristotele osserva che essa deve preparare sia a comandare che ad essere comandati, dato che , nella costituzione da lui considerata migliore e più conforme alla natura della città come società di liberi ed uguali, tutti i cittadini devono avvicendarsi, a turno, nel comando. L'educazione al comando è, ovviamente, l'educazione all'attività politica, mentre l'educazione ad essere comandati non deve essere intesa come semplice educazione a non fare niente, bensì come educazione a svolgere le attività riservate al tempo libero, cioè fondamentalmente le attività teoretiche, nelle quali consiste la felicità.» (Enrico Berti, Profilo di Aristotele - Edizioni Studium, 1979)
Vi è dunque un compito specifico del legislatore delle città che sta nel prevedere un tipo di educazione "mista", in parte privata (da padre a figlio) in parte pubblica (da mediatori dello stato, cioè insegnanti, ad allievi) volto a promuovere tale scelta educativa.
«Ciò significa che l'educazione deve essere integrale, cioè formare non solo alle attività strumentali, pratiche o tecniche, ma anche e soprattutto alle attività fini a se stesse, cui l'uomo si deica nel tempo libero, perché in queste egli realizza pienamente la propria umanità...» (idem)
Dopo aver ribadito che "essendo unico per tutti il fine della città", l'educazione deve essere curata dallo stato, Aristotele giunge ancha ad elencare le materie che devono essere insegnate.
«Queste sono sono la grammatica (cioè la capacità di leggere e scrivere), la ginnastica, la musica ed il disegno. La prima e l'ultima sono utili alla vita, la seconda sviluppa il coraggio, mentre la musica ha un fine tutto particolare, quello di offrire uno svago nobile al riposo. A proposito di quest'ultima anzi Aristotele precisa che essa serve sia come educazione al carattere, sia come divertimento, sia infine come svago intellettuale, e pertanto illustra gli esercizi che si devono compiere per apprenderla e i tipi di armonie e di ritmi che si devono coltivare.» (idem)

Con queste note sul ruolo e sul senso della musica si conclude davvero significativamente la riflessione politica di Aristotele. E' evidente che secondo lo stagirita il senso della politica stessa risiede, infine, nella ricerca della vita felice e beata per i cittadini, o almeno, una particolare categoria di questi, cioè quelli che disponendo di tempo libero, e di denaro in grado di comprare determinati servizi, potrebbero procurarsi tutto ciò che serve alla stessa: libri, musici (oggi diremmo CD e DVD), opportunità di sapere e strumenti d'informazione.
Al di là delle evidenti e clamorose parzialità insite in questa visione, ancor oggi non possiamo sottrarci al suo fascino ed alla sua funzione equlibratrice.
 

La philosophie Crétienne de Saint Anselme de Cantorbéry

Avec saint Anselme de Cantorbéry, nous rencontrons le premier philosophe de grande envergure que le moyen âge ait produit depuis Jean Scot Erigène. Né à Aoste en 1033, il fut attiré par la renommée de Lanfranc, son compatriote, à l’abbaye du Bec, en Normandie (Le Bec-Helluin). En 1063, il en devenait le Prieur ; en 1078, l’Abbé. En 1093, il fut nommé archevêque de Cantorbéry et le demeura jusqu’à sa mort (1109), malgré les difficultés sans nombre que lui suscita cette charge, et la lutte acharnée qu’il eut à soutenir pour défendre les prérogatives du pouvoir spirituel contre le pouvoir temporel. Son activité philosophique la plus intense coïncide avec les années heureuses pendant lesquelles il enseignait à l’abbaye du Bec. Anselme fut un esprit d’une vigueur et d’une subtilité dialectique rares. Nourrie de la pensée de saint Augustin, son œuvre présente à l’état d’implication et d’indication nombre d’idées qui se développeront plus tard, et déborde de toutes parts l’argument ontologique auquel on semble pratiquement la ramener. Ses écrits les plus importants au point de vue philosophique sont le Monologium, le Proslogium, le De veritate, et le traité dans lequel il répond aux objections du moine Gaunilon contre l’argument ontologique développé dans le Proslogium ; mais il a laissé nombre d’autres traités théologiques, et des lettres extrêmement instructive pour la connaissance de ses idées philosophiques, qu’un exposé d’ensemble doit nécessairement utiliser.
Saint Anselme prend d’abord nettement conscience de l’attitude qu’il adopte concernant les rapports de la raison et de la foi. Le Monologium a été écrit spécialement à la requête de certains moines du Bec qui désiraient un modèle de méditation sur l’existence et l’essence de Dieu, dans laquelle tout serait prouvé par la raison et où absolument rien ne serait fondé sur l’autorité de l’Ecriture : quatenus auctoritate Scripturae penitus nihil in ea persuaderetur. Bien loin donc que saint Anselme, qui vécut au XIe siècle, appartienne, comme on l’a prétendu de façon étrange, à la pensée du XIIe, il faut dire qu’avec lui la pensée du XIe siècle tire la conclusion normale que devait recevoir la controverse entre dialecticiens et anti-dialecticiens.
Deux sources de connaissance sont à la disposition des hommes, la raison et la foi. Contre les dialecticiens, saint Anselme affirme qu’il faut s’établir d’abord fermement dans la foi, et il refuse par conséquent de soumettre les Saint Ecritures à la dialectique. La foi est pour l’homme le donné dont il doit partir. Le fait qu’il doit comprendre et la réalité que sa raison peut interpréter lui sont fournis par la révélation ; on ne comprend pas afin de croire, mais on croit au contraire afin de comprendre : neque enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam. L’intelligence, en un mot, présuppose la foi. Mais, inversement, saint Anselme prend parti contre les adversaires irréductibles de la dialectique. Pour celui qui s’est d’abord fermement établi dans la foi, il n’y a aucun inconvénient à s’efforcer de comprendre rationnellement ce qu’il croit. Objecter à cet usage légitime de la raison que les Apôtres et les Pères ont déjà dit tout le nécessaire, c’est oublier d’abord que la vérité est assez vaste et profonde pour que jamais les mortels ne parviennent à l’épuiser, que les jours de l’homme sont comptés et que les Pères n’ont pu dire tout ce qu’ils auraient dit s’ils avaient vécu plus longtemps, que Dieu n’a pas cessé et ne cessera jamais d’éclairer son Eglise ; c’est oublier surtout qu’entre la foi et la vision béatifique à laquelle nous aspirons tous, il y a dès ici-bas un intermédiaire, qui est l’intelligence de la foi. Comprendre sa foi, c’est se rapprocher de la vue même de Dieu. L’ordre à observer dans la recherche de la vérité est donc le suivant : croire d’abord les mystères de la foi avant de le discuter par la raison ; s’efforcer ensuite de comprendre ce que l’on croit. Ne pas faire passer la foi d’abord, comme le font les dialecticiens, c’est présomption ; ne pas faire appel ensuite à al raison, comme l’interdisent leur adversaires, c’est négligence. Il faut donc éviter l’un et l’autre défauts : sicut rectus ordo exigit ut profunda fidei prius credamus priusquam ea praesumamus ratione discutere, ita negligentia mihi videtur, si postquam confirmati sumus in fide, non studemus quod credimus intelligere.
Telle est la détermination de principe à laquelle aboutit saint Anselme. Il est manifeste que la règle posée en ces termes laisse intacte la question de savoir jusqu’où la raison peut aller, en fait, dans l’interprétation de la foi. Il faut croire pour comprendre, mais tout ce que l’on croit peut-il être rendu intelligible ? La foi qui cherche l’intelligence est-elle assurée de la trouver ? On peut dire que, pratiquement, la confiance d’Anselme dans le pouvoir d’interprétation de la raison a été illimitée. Il ne confond pas la foi et la raison, puisque l’exercice de la raison présuppose la foi ; mais tout se passe comme si l’on pouvait arriver à comprendre, sinon ce que l’on croit, du moins la nécessité de le croire. Saint Anselme n’a pas reculé devant la tâche de démontrer la nécessité de la Trinité et de l’Incarnation, entreprise que saint Thomas d’Aquin déclarera contradictoire et impossible. Pour se représenter exactement la position de saint Anselme sur ce point, il faut se souvenir des conditions définies dans lesquelles il abordait sa tâche. Au XIe siècle, la philosophie se réduisait à la Dialectique d’Aristote. Aucune physique, aucune anthropologie, aucune métaphysique, aucune morale purement rationnelle n’était connue des hommes de ce temps. Comprendre le texte sacré, c’était donc avant tout en chercher l’intelligence à l’aide des ressources dont dispose le dialecticien. Saint Anselme a donc fait, avec la technique philosophique dont il disposait, ce que saint Thomas devait refaire au XIIIe siècle avec une technique philosophique enrichie par la découverte de l’œuvre entière d’Aristote. Argumentant en pur dialecticien, il s’est proposé non pas de rendre les mystères intelligibles en eux-mêmes, ce qui eût les supprimer, mais de prouver par ce qu’il nomme des « raisons nécessaires », ce que la raison humaine bien conduite aboutit nécessairement à affirmer. C’était déjà beaucoup. C’est sans doute trop, mais il ne faut pas oublier qu’avec le sentiment très vif du pouvoir explicatif de la raison, saint Anselme garde le sentiment que jamais elle ne parviendra à comprendre le mystère. Démontrer par des raisons logiquement nécessaires que Dieu existe, qu’il est un seul Dieu en trois personnes et que le Verbe devait s’incarner pour sauver les hommes, ce n’est pas pénétrer par la pensée les secrets de la nature divine ni le mystère d’un Dieu fait homme pour nous sauver.
La partie la plus féconde et la plus forte de l’œuvre de saint Anselme consiste en ses démonstrations de l’existence de Dieu. Inspirées de saint Augustin, elles l’emportent cependant sur les preuves augustiniennes par la solidité et la rigueur de leur construction dialectique. Examinons d’abord les preuves du Monologium. Elles supposent admis deux principes : 1° les choses sont inégales en perfection ; 2° tout ce qui possède plus ou moins une perfection la tient de sa participation à cette perfection, prise sous sa forme absolue. Ces deux principes doivent en outre s’appliquer à des données sensibles et rationnelles à partir desquelles on puisse argumenter, par le exemple le bien. Il ne s’agit d’ailleurs pas ici de partir d’un concept abstrait. En fait, nous désirons jouir de ce qui est bon : il est donc à peu près inévitable, et en tout cas fort naturel, que nous en arrivions à nous demander d’où proviennent toutes ces choses que nous jugerons bonnes. C’est cette réflexion si naturelle sur le contenu de notre vie intérieure et sur l’objet de notre désir qui va nous conduire à Dieu. Nous éprouvons en effet par les sens, et nous discernons par la raison, qu’il y a un grand nombre de biens différents ; nous savons d’autre part que tout a une cause, mais nous pouvons nous demander si chaque chose bonne a sa cause particulière ou s’il n’y a qu’une seule cause pour tous ces biens. Or il est absolument certain et évident que tout ce qui possède plus ou moins une perfection la doit à ce qu’il participe à un seul et même principe. Tout ce qui est plus ou moins juste l’est parce qu’il participe plus ou moins à la justice absolue. Donc, puisque tous les biens particuliers sont inégalement bons, ils ne peuvent l’être que par leur participation à un seul et même bien. Mais ce bien par lequel tout est bon ne peut être qu’un grand bien. Tout le reste est bon par lui et lui seul est bon par soi. Or rien de ce qui est bon par autrui n’est supérieur à ce qui est bon par soi. Ce souverain bien l’emporte donc sur tout le reste au point de n’avoir rien au-dessus de soi. C’est dire que ce qui est souverainement bon est aussi souverainement grand. Il y a donc un être premier, supérieur à tout ce qui existe, et c’est lui que nous appelons Dieu.
On peut élargir la base de la preuve. Au lieu d’argumenter sur la perfection constatée chez les différents êtres, on peut argumenter sur cette perfection qu’ils possèdent en commun, quoique à des degrés divers, et qui est l’être. En effet, tout ce qui est a une cause ; la seule question qui se pose à l’égard de la totalité des choses est donc de savoir si elles dérivent de plusieurs causes ou d’une seule. Si l’univers a plusieurs causes, ou bien elles se ramènent à une seule, ou bien elles existent par soi, ou bien elles se produisent les unes les autres. Si elles se ramènent à une seule, c’est évidement cette cause unique qui est la cause de l’univers. Si elles existent par soi, c’est qu’elles possèdent en commun au moins cette faculté d’exister par soi, et c’est cette faculté commune qui les fait être ; elles peuvent donc alors encore être considérées comme se rangeant sous une même cause. Resterait la troisième hypothèse, d’après laquelle ces causes se produisent réciproquement ; mais c’est une hypothèse contraire à la raison qu’une chose existe en vertu de ce à quoi elle donne l’être. Cela n’est même pas vrai des termes d’une relation, ni de la relation elle-même. Le maître et le serviteur sont relatifs l’un à l’autre, mais chacun d’eux n’existe pas en vertu de l’autre, et la double relation qui les unit ne s’engendre pas non plus d’elle-même, mais elle provient des sujets réels entre lesquels elle s’établit. Ainsi donc une seule hypothèse reste intelligible, c’est que tout ce qui existe, existe en vertu d’une seule cause : et c’est cause qui existe par soi est Dieu.
Une troisième démonstration capable de nous conduire à Dieu est celle qui porte sur les degrés de perfection que possèdent les choses. Il suffit de jeter un coup d’œil sur l’univers pour constater que les êtres qui le constituent sont plus ou moins parfaits. C’est une constater à laquelle nul ne peut se refuser. Pour mettre en doute que le cheval soit supérieur à l’arbre, ou que l’homme le soit au cheval, il faudrait soi-même n’être pas un homme. Or si l’on ne peut pas nier que les natures soient supérieures les unes aux autres, il faut admettre ou bien qu’il existe une infinité d’être, et qu’on ne rencontre jamais d’être si parfait qu’il n’y en ait un plus parfait encore, ou bien qu’il y ait un nombre fini d’êtres, et par conséquent un être plus parfait que tout le reste. Or on n’affirmera pas qu’il existe une infinité d’êtres, car c’est absurde, et il faudrait être trop absurde soi-même pour le soutenir. Il existe donc nécessairement une nature telle qu’elle soit supérieure aux autres sans être inférieure à aucune. Reste, il est vrai, l’hypothèse de plusieurs natures égales situées au sommet de la hiérarchie universelle. Mais, si elles sont égales, elles le sont par ce qu’elles ont en commun, et si ce qu’elles ont en commun est leur essence, elles ne sont qu’une seule nature ; et si ce qu’elles ont en commun est autre chose que leur essence, c’est donc une autre nature, supérieure à elles, et qui est à son tour plus parfaite que toutes. Cette preuve se fonde sur l’impossibilité de ne pas clore une série par un seul terme, lorsque cette série est une hiérarchie qui comprend un nombre fini de termes.
Les trois preuves que nous venons de présenter ont ceci de commun, qu’elles partent toutes d’un réel donné et qu’elles rendent raison de l’un des aspects de l’expérience. En fait, il y a du bien, de l’être, des degrés d’être, et l’existence de Dieu est l’explication nécessaire que requièrent ces différents aspects de la réalité. Or saint Anselme est préoccupé de fournir des preuves aussi manifestes que possible et qui s’imposent comme d’elles-mêmes à l’assentiment de notre esprit. Il ne fait que porter à l’extrême ce caractère de la preuve en couronnant les démonstrations précédentes par l’argument ontologique développé dans le Proslogium. Les trois preuves antérieures sont trop compliquées, encore que démonstratives ; il lui faut une seule preuve, qui se suffise à elle-même, et de laquelle découle au contraire nécessairement tout le reste. Cette preuve part de l’idée de Dieu qui nous est fournie par la foi, et elle aboutit, conformément à la méthode d’Anselme, à l’intelligence de cette donnée de la foi. Nous croyons que Dieu existe, et qu’il est l’être tel que l’on ne peut en concevoir de plus grand. La question est de savoir s’il existe ou non une telle nature, car « l’insensé a dit en son cœur : il n’y a pas de Dieu » (Psaume, XIII, 1). Or lorsque nous disons devant l’insensé : l’être tel que l’on ne peut pas en concevoir de plus grand, il comprend ce que nous disons, et ce qu’il comprend existe dans son intelligence, même s’il n’en aperçoit pas l’existence. Car une chose peut exister dans une intelligence sans que cette intelligence sache que la chose existe : lorsqu’un peintre se représente l’œuvre qu’il sera, il l’a dans son intelligence, mais il n’en connaît pas l’existence, puisqu’il ne l’a pas encore faite ; lorsqu’il a exécuté son tableau, au contraire, il a son œuvre dans l’intelligence, et il en connaît l’existence, puisqu’il l’a déjà réalisée. On peut donc convaincre l’insensé lui-même que, au moins dans son esprit, il y a un tel être qu’on ne puisse en concevoir de plus grand, parce que, s’il entend énoncer cette formule, il la comprend, et que tout ce que l’on comprend existe dans l’intelligence. Or ce qui est tel que l’on ne peut rien concevoir de plus grand ne peut pas n’exister que dans l’intelligence. En effet, exister en réalité est être plus grand qu’exister dans l’intelligence seulement. Si donc ce qui est tel que l’on ne peut rien concevoir de plus grand existe dans l’intelligence seulement, on dit que ce dont on ne peut rien concevoir de plus grand est ce dont on peut concevoir quelque chose de plus grand, ce qui est contradictoire. L’être tel qu’on n’en puisse concevoir de plus grand existe donc indubitablement, et dans l’intelligence et dans la réalité.
Les principes sur lesquels repose cette argumentation sont les suivants : 1° une notion de Dieu fournie par la foi ; 2° c’est déjà véritablement exister que d’exister dans la pensée ; 3° l’existence de la notion de Dieu dans la pensée exige logiquement qu’on affirme qu’il existe en réalité. On part donc bien ici encore d’un fait, mais d’un fait qui ressortit à un ordre spécial, celui de la foi. Toute la dialectique abstraite qui se déroule ici va de la foi à la raison et revient à son point de départ, en concluant que ce qui est proposé par la foi est immédiatement intelligible. Une certaine idée de Dieu existe dans la pensée : voilà le fait ; or cette existence, qui est réelle, exige logiquement que Dieu existe aussi dans la réalité : voilà la preuve. Elle s’accomplit par une comparaison de l’être pensé et de l’être réel qui contraint l’intelligence à poser le second comme supérieur au premier. Dès le moyen âge, on a contesté que la preuve soit concluante, et du vivant même de saint Anselme elle a trouvé dans la personne du moine Gaunilon un pénétrant contradicteur. Gaunilon objectait que l’on ne peut s’appuyer sur l’existence dans la pensée pour conclure à l’existence hors de la pensée. En effet, exister comme objet de pensée n’est pas jouir d’une véritable existence, c’est simplement être conçu. Or on peut concevoir une quantité d’objets irréels, ou même impossibles, qui, bien qu’ils soient dans la pensée n’ont certainement aucune existence hors de la pensée. Ils ne sont que des vues de l’entendement qui les conçoit, nullement des réalités. Pourquoi en serait-il autrement de l’idée de Dieu ? Si nous concevons l’idée des Iles fortunées, perdues quelque part dans l’Océan et couvertes de richesses inaccessibles, il ne s’ensuivra pas que ces terres, conçues comme les plus parfaites de toutes, existent aussi dans la réalité. A quoi saint Anselme répondit que le passage de l’existence dans la pensée à l’existence dans la réalité n’est possible et nécessaire que lorsqu’il s’agit de l’être le plus grand qu’on puisse concevoir. La notion d’Iles fortunées ne contient évidement rien qui contraigne la pensée à leur attribuer l’existence, et c’est le propre de Dieu seul, qu’on ne puisse penser qu’il n’existe pas.
Cette démonstration de l’existence de Dieu est assurément le triomphe de la dialectique pure opérant sur une définition. Elle n’en a pas moins un contenu, car ce qu’elle a de force tient au sentiment, juste en soi, de ce qu’il y a d’unique dans la notion d’être prise au sens absolu. Même si l’on récuse la preuve comme telle, on reconnaîtra sans doute que saint Anselme a vu juste en soulignant la force irrésistible avec laquelle la notion d’être absolu, c’est-à-dire tel qu’on n’en puisse concevoir de plus grand, appelle en quelque sorte la position de son existence par la pensée qui le conçoit. Qu’il y ait là un problème réel, on peut en voir un indice dans la vitalité dont l’argumentation de saint Anselme a fait preuve au cours des siècles suivants. Il y a toujours eu des philosophes pour la reprendre et la remanier à leur façon, et ses implications sont si riches que le fait seul de l’avoir rejetée ou admise suffit presque à déterminer le groupe doctrinal auquel appartient une philosophie. Saint Bonaventure, Descartes, Leibniz et Hegel l’ont reprise, chacun à sa manière, mais saint Thomas d’Aquin, Locke et Kant l’ont rejetée, chacun à la sienne. Ce qu’il y a de commun à tous ceux qui l’admettent, c’est l’identification de l’existence réelle à l’être intelligible conçu par la pensée ; ce qu’ont en commun tous ceux qui en condamnent le principe, c’est le refus de poser aucun problème d’existence à part d’un donné empiriquement existant.
Une fois l’existence de Dieu démontrée par l’une quelconque de ces preuves, on peut aisément en déduire les principaux attributs. Puisque Dieu est ce qui ne peut pas ne pas exister, il est l’être par excellence, c’est-à-dire la plénitude de la réalité. On lui donne donc le titre d’essentia, et ce terme, qui signifie « réalité plénière », ne peut se dire proprement que de Dieu seul. C’est même pourquoi nous avons pu prouver qu’il est à partir de la simple notion que nous avons de lui : dire que l’essentia n’est pas, ce serait dire que ce dont la nature même est d’être, n’est pas. Au contraire, rien de ce qui n’est pas Dieu n’est l’être au sens plein du terme ; il faut donc nécessairement que tout le reste, qui n’est pas Dieu et néanmoins existe, tienne de Dieu son être. Comment peut-on concevoir cette dépendance de l’univers par rapport à Dieu ?
Remarquons d’abord qu’exister par soi et exister par autrui sont deux manières différentes d’exister ; on ne possède pas l’être de la même manière dans l’un et l’autre cas. En Dieu, qui seul existe par soi, l’essence et l’être se confondent ; sa nature est, comme la lumière brille. De même que la nature de la lumière ne se sépare pas de l’éclat qu’elle répand, l’essence divine ne se sépare pas de l’être dont elle jouit. Il en va tout autrement des êtres qui tiennent d’autrui leur existence ; leur essence n’est pas telle qu’elle implique nécessairement l’existence, et, pour que leur nature existe, il faut que l’être lui soit conféré par Dieu. Reste à savoir comment Dieu le lui confère. Or deux hypothèses seulement sont possibles : ou bien Dieu est la cause productrice de l’univers, ou bien il est la matière dont l’univers est fait. Si nous admettons cette dernière hypothèse, nous acceptons le panthéisme, et la difficulté du problème tient précisément à ce que, si le monde est formé d’une matière préexistante, le panthéisme ne saurait guère être évité. En effet, Dieu est l’être total ; si donc le monde a été formé d’une matière quelconque, cette matière doit nécessairement se confondre avec l’être de Dieu. Il faut donc que le monde ait été créé de rien, et la doctrine de la création ex nihilo permettra seule de ne pas confondre en un seul être l’univers et Dieu. Ajoutons d’ailleurs qu’on ne voit pas bien comment l’être divin aurait pu fournir la matière de l’univers. Dieu est le souverain bien, et il lui faudrait subir une sorte de corruption pour que cet univers imparfait et limité s’engendrât de sa substance. Reste donc seulement la deuxième hypothèse que nous avions envisagée : l’univers vient à l’être sans aucune matière préexistante ; il n’existait pas, et voici que, par la seule puissance de Dieu, il existe. Cette apparition du monde, succédant pour ainsi dire à son non-être, et se produisant par un décret de la sagesse et de la volonté divines, c’est précisément ce que l’on veut désigner lorsqu’on dit que Dieu a créé le monde du néant.

Ce serait pourtant exagérer et rendre l’apparition même du monde inintelligible que de lui dénier absolument toute espèce d’existence avant l’instant de sa création. Lorsque l’univers n’était pas encore posé dans l’être actuel qu’il a reçu de Dieu, il existait déjà en tant qu’exemplaire, forme, image, ou règle dans la pensée de son créateur ; seulement, sous cette forme, il n’avait pas d’autre réalité que celle de l’essence créatrice elle-même. La doctrine anselmienne des Idées divines est l’exact contrepied de la doctrine érigénienne des Idées créées, car il est bien vrai de dire que, selon saint Anselme, les créatures préexistent en Dieu ; il est même vrai d’ajouter qu’en Dieu elles sont et subsistent plus véritablement qu’en elles-mêmes, mais la raison en est précisément qu’elles ne sont rien d’autre en Dieu que Dieu. Présentes déjà dans sa pensée, les créatures en sont sorties par l’effet de sa parole ou de son verbe ; Dieu les a parlées et elles furent. Cette parole créatrice n’a, bien entendu, rien de commun avec les mots que notre bouche profère, ni avec ces mêmes mots lorsque nous ne les proférons pas mais les pensons intérieurement ; si l’on veut absolument recourir à des images misérablement déficientes, elle ressemblerait plutôt à cette vue intérieure que nous avons des choses lorsque nous les imaginons ou lorsque notre raison pense leur essence universelle. Les mots prononcés ou pensés sont particuliers à chaque peuple ; la parole intérieure par laquelle nous imaginons les êtres ou pensons les essences est commune à tous les peuples : elle est véritablement une langue universelle par laquelle tous les esprits communient. C’est aussi une parole ou un Verbe de ce genre, prototype de la chose même dont il précéda l’existence, qui fut, dans la pensée divine, l’exemplaire des choses créées, le moyen de leur création, et qui reste encore maintenant ce par quoi Dieu les connaît.
Ainsi, tout ce qui n’est pas l’essence de Dieu a été créé par Dieu, et de même qu’il a conféré à toutes choses l’être qu’elles ont, il les soutient et les conserve pour leur permettre de persévérer dans l’être. C’est dire que Dieu est partout présent, supportant tout par sa puissance, et que là où il n’est pas, rien n’est. Si donc nous voulons dire quelque chose d’un être aussi complètement transcendant à tous les êtres créés, nous devrons lui attribuer des noms qui désignent une perfection positive, et ceux-là seuls. Encore cette attribution ne sera-t-elle légitime qu’à deux conditions. En premier lieu, il faudra les lui attribuer absolument et non pas relativement ; non pas même relativement à la totalité des choses créées dont il est la cause première. Ce n’est pas caractériser la substance divine que de la déclarer supérieure à toutes les créatures, car si l’univers n’existait pas, la perfection divine, absolue en elle-même, n’en souffrirait aucun changement ni aucune diminution. En second lieu, ce ne sont pas toutes les perfections positives, indifféremment, qu’il est légitime d’attribuer à Dieu, mais seulement celles qui, absolument parlant, sont meilleures que tout ce qui n’est pas elles. On ne donnera à dieu que les qualifications qui lui attribuent ce qu’il y a de plus parfait en chaque genre. Nous ne dirons pas que Dieu soit un corps, parce que nous connaissons quelque chose de supérieur au corps, l’esprit ; par contre, puisque nous ne connaissons rien de supérieur à l’esprit dans le genre de l’être, nous dirons que Dieu est esprit. Ainsi, en attribuant à Dieu tout ce que, absolument parlant, il nous semble meilleur d’être que de ne pas être, nous établirons que Dieu est, et qu’il est, indivisiblement, vivant, sage, puissant et tout-puissant, vrai, juste, bienheureux, éternel. Toutes ces perfections se réunissent en Dieu sans en altérer la parfaite simplicité. Etant par soi, et l’existence se confondant en lui avec l’essence, il n’a ni commencement ni fin ; il est dans tous les lieux et dans tous les temps, sans être enfermé dans aucun lieu ni dans aucun temps ; il est immuable, et son essence demeure identique à soi-même, sans recevoir aucun accident ; substance et esprit individuel, il ne se laisse cependant pas renfermer dans cette catégorie de substance qui ne convient qu’aux êtres créés : seul il est, au sens plein de ce terme, et les autres êtres, comparés à lui, ne sont pas.
Parmi les créatures, l’homme est une de celles où se retrouve le plus aisément l’image de Dieu imprimée sur ses œuvres par le créateur. Lorsque l’homme s’examine, il découvre en effet dans son âme les vestiges de la Trinité. Seule de toutes les créatures, l’âme humaine se souvient de soi-même, se comprend soi-même et s’aime soi-même, et par cette mémoire, cette intelligence et cet amour, elle constitue une ineffable Trinité. La connaissance que nous acquérons des choses suppose la coopération des sens et de l’intelligence, mais saint Anselme ne précise pas le mode de cette coopération et se contente de reprendre, sans les approfondir, quelques expressions augustiniennes sur l’illumination de l’âme par Dieu. Quand au mode d’existence des idées générales, saint Anselme s’oppose vigoureusement aux tendances nominalistes de Roscelin et, par réaction contre l’attitude de son adversaire, il insiste sur la réalité des genres et des espèces, au point de faire du réalisme une condition nécessaire de l’orthodoxie théologique. Selon lui, si l’on ne comprend pas même comment plusieurs hommes peuvent, réunis dans leur espèce, former un seul homme, on comprendra bien moins encore comment un seul Dieu peut consister en trois personnes distinctes. Cette réalité attribuée aux idées générales est d’ailleurs l’un des éléments qui ont orienté la pensée de saint Anselme vers la découverte de l’argument ontologique et qui lui ont permis d’argumenter directement sur les degrés de perfection pour s’élever à Dieu. Si les idées sont des choses, chaque degré de perfection est un degré du réel, et l’idée de l’être le plus parfait qui se puisse concevoir nous introduit d’emblée dans un certain ordre de réalité. Le passage de l’idée à l’être devait tenter la pensée de saint Anselme parce que, pour lui, les idées sont déjà des êtres.
Cette théologie naturelle, la seule partie de sa philosophie que saint Anselme ait approfondie et développée de manière systématique, se complète par une théorie de la vérité envisagée sous son aspect le plus métaphysique. La vérité d’une connaissance tient à sa « rectitude », c’est-à-dire qu’elle est, comme elle doit être, l’appréhension correcte de ce qu’est son objet. Mais ce n’est là qu’une forme particulière de la vérité. Comme la connaissance qui l’appréhende, l’objet connu a la sienne, et c’est encore une « rectitude » : toute chose est vraie en tant qu’elle est ce qu’elle doit être d’après son idée en Dieu. Une volonté est vraie si elle est droite ; une action est vraie pour la même raison. Bref, la vérité est la conformité de ce qui est à la règle qui fixe ce qu’il doit être, et comme cette règle est toujours en fin de compte l’essence créatrice, le De Veritate de saint Anselme conclut qu’il n’y a qu’une seule vérité de tout ce qui est vrai, à savoir Dieu.
Les thèses de saint Anselme ne forment pas une théologie ni une philosophie complète, mais elles sondent profondément les problèmes qu’elles touchent, et elles offraient un premier exemple de cette exploration rationnelle du dogme que les théologies dites scolastiques allaient bientôt développer. Techniquement parlant, la théologie d’Anselme était en avance sur la théologie d’allure encore toute patristique qu’Abélard allait proposer. Ce qui manque le plus à cette doctrine, dont la pensée est si forte et l’expression si ferme, c’est une philosophie de la nature assez dense pour équilibrer l’étourdissante virtuosité dialectique de son auteur. En fait, l’œuvre de saint Anselme est un dialogue entre la logique et la Révélation chrétienne. On ne s’étonnera donc pas qu’elle soit d’une importance capitale pour l’histoire de la théologie, mais si l’intérêt qu’elle présente pour l’histoire de la philosophie reste plus limité, elle y regagne en profondeur ce qu’elle perd en étendue. La preuve de l’existence de Dieu tirée de son idée seule fut et reste encore une de ces expériences métaphysiques dont on peut dire qu’elles naissent éternelles, parce qu’elles atteignent le terme ultime de l’une des voies où l’esprit humain peut s’engager.
L’époque de saint Anselme a d’ailleurs été le témoin d’un travail de réflexion théologique extrêmement intense. Au moment où le prieur du Bec définit l’esprit et marque les positions essentielles des synthèses futures, d’autres penseurs conçoivent le cadre théologique à l’intérieur duquel ces synthèses viendront s’insérer. Anselme de Laon (mort en 1117) inaugure la série des Livres des sentences, c’est-à-dire des recueils de textes de Pères de l’Eglise classés par ordre de matière, et donne le modèle que vont reproduire et améliorer Pierre Abélard, Robert de Melun, Pierre Lombard (le Maître des sentences), et beaucoup d’autres. Désormais l’objet proposé à la réflexion philosophique des théologiens embrassera l’existence et la nature de Dieu, la création, et particulièrement l’homme pris avec son activité intellectuelle et morale. Jean Scot Erigène, dont l’influence sur Anselme de Laon n’est pas douteuse, avait déjà conçu ce vaste cadre, mais il fallait d’abord le vider de la philosophie aventureuse qu’il y avait introduite, y remettre ensuite les données théologiques dans toute leur nudité et séparer soigneusement la révélation de son interprétation rationnelle. Les auteurs des Sentences jalonnent, en posant les vérités de foi, la route que pourra parcourir à son tour la raison : c’est pourquoi leur œuvre qui, comparée à celle de Jean Scot Erigène, peut sembler au point de vue philosophique un recul, est en réalité un progrès vers cette philosophie définie que le XIIIe siècle réussira à constituer. Les « Sentences » vont bientôt s’enrichir de « Commentaires sur les Sentences », et lorsque les matériaux nécessaires auront été laborieusement amassés, leur surabondance même invitant à les mettre en ordre, nous verrons se construire les « Sommes théologiques », ces cathédrales d’idées.

Source :
GILSON E., La philosophie au Moyen Âge (1944), p.240-251

A odisséia de Homero.

Considerado uma das maiores obras da literatura, além de constituir, ao lado da Ilíada, obra iniciadora da literatura grega escrita, a Odisséia, de Homero, expressa com força e beleza a grandiosidade da remota civilização grega.

Além de símbolo da unidade e do espírito helênico, a Ilíada e a Odisséia são fontes de prazer estético e ensinamento moral.

A Odisséia data provavelmente do século VIII a.C., quando os gregos, depois de um longo período sem dispor de um sistema de escrita, adotaram o alfabeto fenício.

Na Odisséia ressoa ainda o eco da guerra de Tróia, narrada parcialmente na Ilíada. Enquanto a Ilíada é a representação da vida guerreira e da época heróica, a Odisséia pode ser tomada como representação da vida doméstica, entremeada de narrações de viagens e de aventuras maravilhosas.

Odisséia, do grego Odysseía, significa “o regresso”. O título do poema provém do nome do protagonista, o grego Ulisses (Odisseu). Filho e sucessor de Laerte, rei de Ítaca e marido de Penélope, Ulisses é um dos heróis favoritos de Homero e já aparece na Ilíada como um homem perspicaz, bom conselheiro e bravo guerreiro. O mar também é um dos personagens centrais na obra.

Estrutura e Enredo

Na Odisséia, Homero registra um dos primeiros relatos de viagem. Leva para o plano ficcional os limites, as fronteiras do mundo conhecido, fixando certas idéias dos gregos a respeito de além do "vinoso mar".

A obra narra as viagens e aventuras de Ulisses em duas etapas:

- A primeira compreende os acontecimentos que, em nove episódios sucessivos, afastam o herói de casa, forçado pelas dificuldades criadas pelo deus Posêidon.

- A segunda consta de mais nove episódios, que descrevem sua volta ao lar sob a proteção da deusa Atena.

É também desenvolvido um tema secundário, o da vida na casa de Ulisses durante sua ausência, e o esforço da família para trazê-lo de volta a Ítaca.

A Odisséia compõe-se de 24 cantos e contém 12.000 versos hexâmetros (seis sílabas), e a ação se inicia dez anos depois da guerra de Tróia, em que Ulisses lutara ao lado dos gregos.

A ordem da narrativa é inversa: tem início pelo desfecho, a assembléia dos deuses, em que Zeus decide a volta de Ulisses ao lar.

O relato é feito, de forma indireta e em retrospectiva, pelo próprio herói aos feaces - povo mítico grego que habitava a ilha de Esquéria. Hábeis marinheiros, são eles que conduzem Ulisses a Ítaca.

O poema estrutura-se em quatro partes:

Na primeira (cantos I a IV), intitulada Assembléia dos deuses, Atena vai a Ítaca animar Telêmaco, filho de Ulisses, na luta contra os pretendentes à mão de Penélope, sua mãe, que decide enviá-lo a Pilos e a Esparta em busca do pai. O herói porém encontra-se na ilha de Ogígia, prisioneiro da deusa Calipso.

Na segunda parte, Nova assembléia dos deuses, Calipso liberta Ulisses, por ordem de Zeus, que atendeu aos pedidos de Atena e enviou Hermes com a missão de comunicar a ordem. Livre do jugo de Calipso, que durou sete anos, Ulisses constrói uma jangada e parte, mas uma tempestade desencadeada por Posêidon lança-o na ilha dos feaces (canto V), onde é descoberto por Nausícaa, filha do rei Alcínoo. Bem recebido pelo rei (cantos VI a VIII), Ulisses mostra sua força e destreza em competições esportivas que se seguem a um banquete.

Na terceira parte, Narração de Ulisses (cantos IX a XII), o herói passa a contar a Alcínoo as aventuras que viveu desde a saída de Tróia: sua estada no país dos Cícones, dos Lotófagos e dos Ciclopes; a luta com o ciclope Polifemo; o episódio na ilha de Éolo, rei dos ventos, onde seus companheiros provocam uma violenta tempestade, que os arroja ao país dos canibais, ao abrirem os odres em que estão presos todos os ventos; o encontro com a feiticeira Circe, que transforma os companheiros em porcos; sua passagem pelo país dos mortos, onde reencontra a mãe e personagens da guerra de Tróia.

Na quarta parte, Viagem de retorno, o herói volta à Ítaca, reconduzido pelos feaces (canto XIII). Apesar do disfarce de mendigo, dado por Atena, Ulisses é reconhecido pelo filho, Telêmaco, e por sua fiel ama Euricléia, que, ao lavar-lhe os pés, o identifica por uma cicatriz. Assediada por inúmeros pretendentes, Penélope promete desposar aquele que conseguir retesar o arco de Ulisses, de maneira que a flecha atravesse 12 machados. Só Ulisses o consegue. O herói despoja-se em seguida dos andrajos e faz-se reconhecer por Penélope e Laerte.

Segue-se a vingança de Ulisses (cantos XIV a XXIV): as almas dos pretendentes são arrastadas aos infernos por Hermes e a história termina quando Atena impõe uma plena reconciliação durante o combate entre Ulisses e os familiares dos mortos.

A concepção do poema é predominantemente dramática e o caráter de Ulisses, marcado por obstinação, lealdade e perseverança em seus propósitos, funciona como elemento de unificação que permeia toda a obra. Aí aparecem fundidas ou combinadas uma série de lendas pertencentes a uma antiqüíssima tradição oral com fundo histórico. Há forte crença de que a Odisséia reúna temas oriundos da época em que os gregos exploravam e colonizavam o Mediterrâneo ocidental, daí a presença de mitos com seres monstruosos no Ocidente, para eles ainda misterioso.

Pela extrema perfeição de seu todo, esse poema tem encantado o homem de todas as épocas e lugares. É consenso que a Odisséia completa a Ilíada como retrato da civilização grega, e as duas juntas testemunham o gênio de Homero e estão entre os pontos mais altos atingidos pela poesia universal.

IL Buddhismo


Una religione sostanzialmente differente dalle più consuete da noi occidentali conosciute è il buddhismo. Già l’iconografia prima di iniziare lo studio ci mostra un’immagine del Buddha assorto in meditazione con un volto serafico che sottintende un animo sereno lontano dai dolori e dalle angosce del mondo; l’occhio dell’occidentale è colpito dal contrasto con l’immagine della nostra divinità, Gesù Cristo, rappresentato in croce sofferente perché sottoposto al più barbaro supplizio che i romani riservavano ai più umili tra i condannati. Molti di noi conoscono sommariamente la storia del buddhismo, ma pochi conoscono la sua filosofia, pochissimi sanno cosa è il buddhismo nella sua essenza, e quale è il suo messaggio fondamentale, i motivi di questa scarsa conoscenza stanno nella difficoltà di accedere ad un insegnamento che risulta difficile e sicuramente diverso da quello che noi  intendiamo per religione.

Il buddhismo nella sua forma originaria, rifiuta infatti qualsiasi dipendenza da credenze soprannaturali, al punto che diversi autori occidentali hanno definito il buddhismo una religione atea, sostanzialmente perche nel buddhismo non è contemplata l’esistenza di un dio, ma il buddhismo dimostra che una religione può essere tale senza la fede in Dio che della religione è solo un aspetto. Il Buddha (l’Illuminato) che è semplicemente considerato un uomo, nato e morto come tale, ha insegnato all’uomo la strada per emanciparsi dal dolore, egli attraverso la meditazione ha raggiunto l’illuminazione, che consiste nell’aver compreso la verità sulla condizione dell’uomo, ed aver trovato il rimedio alla sofferenza. Il buddhismo non contemplando l’esistenza di entità sovrannaturali ritiene che l’uomo debba emanciparsi con le proprie forze, e il proprio impegno verso la liberazione. Il buddhismo nella sua essenza è un insegnamento finalizzato al superamento del dolore e della sofferenza. L’insegnamento fondamentale del Buddha, il Dharma, è contenuto in Quattro Nobili Verità rivelate dallo stesso Buddha nel Sermone di Benares.

La prima Nobile Verità indica l’universalità del dolore, qui si insegna che nessun uomo può sfuggire alla condizione miserevole e dolorosa, dal momento che si è nati si dovrà invecchiare e morire e nessuno potrà sottrarsi. La seconda Nobile Verità spiega l’origine del dolore, che per il buddhismo è dovuta all’ignoranza che ci induce all’attaccamento alle cose relative e mutevoli del mondo. La terza insegna la via per sopprimere il dolore, qui con la pratica meditativa si impara a rimuovere l’attaccamento alle cose relative e condizionate. La quarta insegna otto necessarie virtù di rettitudine che ci permetteranno di superare il dolore. Se come abbiamo visto il dolore è centrale nel messaggio filosofico buddhista, ora dobbiamo capire cosa si intende nel buddhismo per dolore(dukkha). Nel buddhismo la sofferenza ed il dolore non si devono intendere quello che noi occidentali con queste parole intendiamo, cioè una spiacevole sensazione fisica; il dolore nel buddhismo è una consapevolezza culturale, una condizione esistenziale.

 Si dice che la malattia, la vecchiaia, la morte sono dolorose, e tutta la vita dell’uomo e soggetta a sofferenza, ma il motivo di tanto pessimismo è soprattutto originato dalla constatazione che nel mondo e nella realtà dell’uomo tutto è impermanente (anicca), senza una sostanza inerente (anatta), relativo quindi: che vale “quel tanto e non di più”, è questa la ragione più profonda del dolore buddhista. In questo tipo di pensiero si coglie in pieno quel generale fondo di insoddisfazione che deriva da tutti i beni e i piaceri che la vita ci riserva. Il motivo centrale della sofferenza nella filosofia buddhista è la constatazione della natura relativa e condizionata della vita dell’uomo e dei fenomeni, il rammarico di non trovare nella vita nulla di assoluto e permanente, in questa frustrazione il buddhismo mostra la sua natura religiosa, e come altre religioni non ritiene appagante e definitiva ed accettabile la realtà materiale.


 E’ un comune denominatore dei principali sistemi religiosi l’alienazione nei confronti della realtà materiale, e l’incapacità di accettare la realtà nei suoi aspetti più sgradevoli, è lo scopo principale che motiva i maggiori sistemi religiosi. E’ necessario osservare come il pensiero buddhista scopra il velo della vera essenza della religione, di tutte le religioni, che trovano la loro basilare motivazione, il loro primario impulso, nel offrire una alternativa al mondo e alla realtà; spesso il seguace non indaga nella veridicità, nell’efficienza dei modi offerti dalla religione, egli si appaga immaginando possibile una strada alternativa al mondo, egli quindi non crede e segue la religione perche la ritiene vera ed infallibile, ma la segue per appagare il suo bisogno di fantasticare, rendendo la propria interiorità psichica prioritaria sulla realtà esterna con la pratica della meditazione. L’ignoranza nel buddhismo consiste in definitiva nell’attribuire valore assoluto alle cose impermanenti e relative. Tutti gli elementi sono privi di un sé/ Tutto ciò che è condizionato è impermanente/ quando questo si vede con l’occhio della saggezza/ Allora se ne ha abbastanza della sofferenza/ questo è il cammino della purezza. dal capitolo Magga Vagga del Dhammapada.

La liberazione dallo stato di insoddisfazione, dolore e sofferenza in cui l’uomo vive, è lo scopo del buddhismo. Centrale nella pratica religiosa è la meditazione, che ridotta all’essenziale si può definire uno stato di concentrazione mentale su fenomeni sensoriali semplici, come per esempio l’attenzione sul respiro, ma il cuore della meditazione buddhista è un una disciplina di attenzione sempre più acuita, finalizzata alla comprensione della realtà materiale e fenomenica con lo scopo ultimo di comprendere la natura impermanente, dolorosa, condizionata, ed inappagante dei fatti della vita e del mondo, ottenendo in questo modo un distacco che è la via buddhista verso la liberazione che conduce alla liberazione dal dolore. “Soltanto mediante l’attenzione si potrà discernere l’errore derivato dall’ignoranza della vera realtà delle cose, soltanto mediante l’attenzione si potrà verificare la nostra atavica ignoranza che ci impedisce di intuire con evidenza che l’impermanenza (anicca) delle cose è la causa unica di sofferenza” tratto dall’introduzione del Dhammapada di Luigi Martinelli. Il nirvana (nibbana) che è la meta dei buddhisti, significa spegnimento, estinzione, resta in ogni caso una parola dai molteplici significati: tra i più consueti si intende la fine delle rinascite, la fine della sofferenza, ma anche uno stato di distacco da tutto compresa la propria vita, il nirvana resta in ogni modo un’esperienza psichica raggiungibile parzialmente nella vita, ed ottenibile in modo definitivo e privo di contaminazioni solo con la morte(parinirvana). Ora si comprende come il buddhismo sia differente, anzi antitetico al cristianesimo, dove lo scopo ultimo resta la vita eterna, quindi la salvezza dalla morte.

 Dal tronco delle parole del Buddha, si sono diversificati nel corso dei secoli tre grandi rami: il Piccolo Veicolo (Hinayana) anche detto Theravada che significa insegnamento degli anziani, oggi questa tradizione è diffusa in Birmania, Thailandia, Ceylon, Cambogia, Laos, Viet-Nam, quindi nel sud dell’Asia. Il Grande Veicolo (Mahayana) una scuola di pensiero che ha mantenuto il messaggio originale ma ha assorbito l’influenza delle religioni presenti antecedenti il buddhismo e principalmente l’induismo, tale tradizione si trova in Cina e Giappone e Corea.

Il Veicolo Adamantino (Vajarana) rappresenta il terzo ramo del buddhismo, presente nella regione Himalayana, in Tibet, in Mongolia. Una caratteristica peculiare del buddhismo e non comune nelle altre religioni è la tolleranza, sicuramente considerato un valore, ma l’aver tollerato e mai interamente soppiantato le religioni presenti nei luoghi di diffusione del buddhismo, ha determinato il fenomeno del sincretismo religioso. Oggi nel mondo il buddhismo appare come una religione decadente, contaminata da altri credi religiosi arcaici, dimostrando in questo modo i suoi 2500 anni. Nell’occidente la tradizione buddhista più conosciuta è certamente il buddhismo tibetano per la presenza dei tibetani esuli del Tibet, ma il buddhismo nelle avanguardie intellettuali esiste dall’1800. Schopenhauer dice che il buddhismo è la religione più alta. Friedrich Nietzsche si interesso al buddhismo ritenendolo una religione decadente come il cristianesimo, ma egli definì il buddhismo cento volte più realistico del cristianesimo questo perche: il concetto di Dio al suo primo apparire, è già quasi spazzato via; ma soprattutto perche esso non dice piùlotta contro il peccato”, bensì, dando pienamente ragione alla realtà,” lotta contro il dolore”.

 Nietzsche poi elogiò anche l’egoismo nella dottrina del Buddha. Nel ventesimo secolo il buddhismo ha avuto un certo sviluppo a partire dagli anni 50 del secolo scorso, negli Stati Uniti per la conversione al buddhismo degli esponenti della Beat Generetion. Oggi nel mondo occidentale sono rappresentate tutte le correnti del buddhismo, e diffusi sono anche i centri di meditazione. Molti attori e personaggi illustri dello spettacolo si definiscono buddhisti, trasformando quasi la conversione al buddhismo in una moda da vip. Molti ostacoli culturali si frappongono però tra noi occidentali e il buddhismo, e rendono ardua l’adesione a questa religione; gli ostacoli sono di natura culturale difficilmente superabili, come ad esempio la concezione della realtà che nel buddhismo è una dimensione frustrante da rifuggire, mentre noi occidentali abbiamo fondato tutto il nostro sapere sulla scienza che è proprio lo studio della realtà materiale e dei fenomeni.

Esiste poi un assunto che ostacola noi occidentali nell’approccio al buddhismo, ed è la reincarnazione. La reincarnazione o metempsicosi, è un retaggio comune di tutte le religioni indiane, nel buddhismo è accettata nella corrente Mahayana, ed è meno importante nella tradizione Hinayana. Rimane comunque un assunto religioso lontano dalla nostra cultura.
Concludendo nella sua essenza il buddhismo si può definire un pensiero filosofico di tipo religioso, dove il dolore è ritenuto il maggiore dei mali, ma questo dolore è diverso dalla nostra idea di dolore, perche in definitiva è unicamente la constatazione della vera natura del mondo e della vita dell’uomo, sono di natura relativa e quindi priva di qualsiasi entità assoluta. Il buddhismo ritiene illusoria la conoscenza materiale. Il buddhista che è un idealista, constata che tutto nella vita e nel mondo è impermanente, di conseguenza ritiene la realtà una condizione negativa. E’ soprattutto nella considerazione negativa della realtà del mondo e della vita dell’uomo che il buddhismo mostra la sua vera natura religiosa. Il buddhismo con una metodologia quasi medica, prima fa una diagnosi e poi presenta la terapia, che è la via per superare il dolore attraverso il non attaccamento alle cose ed al mondo, il dolore viene superato con la pratica che è la meditazione(Sati-pattahana); un efficace sistema di suggestione mentale finalizzato a concentrare il praticante sulla sua realtà psichica, piuttosto di quella del mondo, raggiungendo un'alienazione dalla realtà, un ripiegamento in se stessi che permette attraverso il metodo del non-attaccamento alle cose ad alla vita di superare il dolore.

 Il buddhismo quindi pur essendo differente dalle religioni a noi più vicine, è sicuramente una religione, e come tale rientra a tutti gli effetti nella definizione che feci della religione in generale. Il buddhismo ha la più alta finalità di superare la realtà dolorosa del mondo, perche anch’esso come già si è visto in altri sistemi religiosi, ritiene la realtà del mondo e la vita dell’uomo dolorosa inconsistente ed insoddisfacente e il fine religioso è sempre quello di superare la realtà, che nel buddhismo è forse peggiore della valle di lacrime dei cristiani.

Ma il rimedio della pratica religiosa buddhista del non attaccamento nei confronti della realtà impermanente e inconsistente, non possono realmente nulla nei confronti della sofferenza, ed anche qui solo la suggestione, l’estraniazione possono illudere il praticante di avere eliminato la sofferenza della vita. Solo la Prima Nobile Verità dove si descrive la natura relativa della realtà mi trova d’accordo, sulle altre tre nutro forti perplessità.

 Così come nel cristianesimo che si prefiggeva la vita eterna, anche nel buddhismo che si prefigge il superamento del dolore, le mete che si prefiggono le religioni potranno essere raggiunte solamente con l’illusione. Negli ultimi scritti Feuerbach scrisse: Il buddismo è una manifestazione non dell’istinto di felicità sano, naturalmente vigoroso, retto, ragionevole, bensì di un istinto di felicità malato, esaltato, fantastico, che per il male trascura il bene, colpito ed offeso dai mali che sono connessi a ogni bene, soprattutto il male della caducità.


sexta-feira, 15 de julho de 2011

What's positivism ?

Auguste Comte, the father of positivism

Positivism & Post-Positivism



Let's start our very brief discussion of philosophy of science with a simple distinction between epistemology and methodology. The term epistemology comes from the Greek word epistêmê, their term for knowledge. In simple terms, epistemology is the philosophy of knowledge or of how we come to know. Methodology is also concerned with how we come to know, but is much more practical in nature. Methodology is focused on the specific ways -- the methods -- that we can use to try to understand our world better. Epistemology and methodology are intimately related: the former involves the philosophy of how we come to know the world and the latter involves the practice.
When most people in our society think about science, they think about some guy in a white lab coat working at a lab bench mixing up chemicals. They think of science as boring, cut-and-dry, and they think of the scientist as narrow-minded and esoteric (the ultimate nerd -- think of the humorous but nonetheless mad scientist in the Back to the Future movies, for instance). A lot of our stereotypes about science come from a period where science was dominated by a particular philosophy -- positivism -- that tended to support some of these views. Here, I want to suggest (no matter what the movie industry may think) that science has moved on in its thinking into an era of post-positivism where many of those stereotypes of the scientist no longer hold up.
Let's begin by considering what positivism is. In its broadest sense, positivism is a rejection of metaphysics (I leave it you to look up that term if you're not familiar with it). It is a position that holds that the goal of knowledge is simply to describe the phenomena that we experience. The purpose of science is simply to stick to what we can observe and measure.


 Knowledge of anything beyond that, a positivist would hold, is impossible. When I think of positivism (and the related philosophy of logical positivism) I think of the behaviorists in mid-20th Century psychology. These were the mythical 'rat runners' who believed that psychology could only study what could be directly observed and measured. Since we can't directly observe emotions, thoughts, etc. (although we may be able to measure some of the physical and physiological accompaniments), these were not legitimate topics for a scientific psychology. B.F. Skinner argued that psychology needed to concentrate only on the positive and negative reinforcers of behavior in order to predict how people will behave -- everything else in between (like what the person is thinking) is irrelevant because it can't be measured.
In a positivist view of the world, science was seen as the way to get at truth, to understand the world well enough so that we might predict and control it. The world and the universe were deterministic -- they operated by laws of cause and effect that we could discern if we applied the unique approach of the scientific method. Science was largely a mechanistic or mechanical affair. We use deductive reasoning to postulate theories that we can test. Based on the results of our studies, we may learn that our theory doesn't fit the facts well and so we need to revise our theory to better predict reality. The positivist believed in empiricism -- the idea that observation and measurement was the core of the scientific endeavor. The key approach of the scientific method is the experiment, the attempt to discern natural laws through direct manipulation and observation.

Brazilian flag was influenced by Positivism
OK, I am exaggerating the positivist position (although you may be amazed at how close to this some of them actually came) in order to make a point. Things have changed in our views of science since the middle part of the 20th century. Probably the most important has been our shift away from positivism into what we term post-positivism. By post-positivism, I don't mean a slight adjustment to or revision of the positivist position -- post-positivism is a wholesale rejection of the central tenets of positivism. A post-positivist might begin by recognizing that the way scientists think and work and the way we think in our everyday life are not distinctly different. Scientific reasoning and common sense reasoning are essentially the same process. There is no difference in kind between the two, only a difference in degree. Scientists, for example, follow specific procedures to assure that observations are verifiable, accurate and consistent. In everyday reasoning, we don't always proceed so carefully (although, if you think about it, when the stakes are high, even in everyday life we become much more cautious about measurement. Think of the way most responsible parents keep continuous watch over their infants, noticing details that non-parents would never detect).
One of the most common forms of post-positivism is a philosophy called critical realism. A critical realist believes that there is a reality independent of our thinking about it that science can study. (This is in contrast with a subjectivist who would hold that there is no external reality -- we're each making this all up!). Positivists were also realists. The difference is that the post-positivist critical realist recognizes that all observation is fallible and has error and that all theory is revisable.


In other words, the critical realist is critical of our ability to know reality with certainty. Where the positivist believed that the goal of science was to uncover the truth, the post-positivist critical realist believes that the goal of science is to hold steadfastly to the goal of getting it right about reality, even though we can never achieve that goal! Because all measurement is fallible, the post-positivist emphasizes the importance of multiple measures and observations, each of which may possess different types of error, and the need to use triangulation across these multiple errorful sources to try to get a better bead on what's happening in reality.

The post-positivist also believes that all observations are theory-laden and that scientists (and everyone else, for that matter) are inherently biased by their cultural experiences, world views, and so on. This is not cause to give up in despair, however. Just because I have my world view based on my experiences and you have yours doesn't mean that we can't hope to translate from each other's experiences or understand each other. That is, post-positivism rejects the relativist idea of the incommensurability of different perspectives, the idea that we can never understand each other because we come from different experiences and cultures.


Most post-positivists are constructivists who believe that we each construct our view of the world based on our perceptions of it. Because perception and observation is fallible, our constructions must be imperfect. So what is meant by objectivity in a post-positivist world? Positivists believed that objectivity was a characteristic that resided in the individual scientist. Scientists are responsible for putting aside their biases and beliefs and seeing the world as it 'really' is. Post-positivists reject the idea that any individual can see the world perfectly as it really is. We are all biased and all of our observations are affected (theory-laden). Our best hope for achieving objectivity is to triangulate across multiple fallible perspectives! Thus, objectivity is not the characteristic of an individual, it is inherently a social phenomenon.


 It is what multiple individuals are trying to achieve when they criticize each other's work. We never achieve objectivity perfectly, but we can approach it. The best way for us to improve the objectivity of what we do is to do it within the context of a broader contentious community of truth-seekers (including other scientists) who criticize each other's work. The theories that survive such intense scrutiny are a bit like the species that survive in the evolutionary struggle. (This is sometimes called the natural selection theory of knowledge and holds that ideas have 'survival value' and that knowledge evolves through a process of variation, selection and retention). They have adaptive value and are probably as close as our species can come to being objective and understanding reality.
Clearly, all of this stuff is not for the faint-of-heart. I've seen many a graduate student get lost in the maze of philosophical assumptions that contemporary philosophers of science argue about. And don't think that I believe this is not important stuff. But, in the end, I tend to turn pragmatist on these matters. Philosophers have been debating these issues for thousands of years and there is every reason to believe that they will continue to debate them for thousands of years more. Those of us who are practicing scientists should check in on this debate from time to time (perhaps every hundred years or so would be about right). We should think about the assumptions we make about the world when we conduct research. But in the meantime, we can't wait for the philosophers to settle the matter. After all, we do have our own work to do!

quinta-feira, 14 de julho de 2011

A origem do jogo de Xadrez


A origem do xadrez é certamente o maior mistério existente no mundo. Atribui tanto a origem do xadrez ao Rei Salomão quanto aos sábios mandarins contemporâneos de Confúcio. Mas outras pessoas também atribuem a origem do xadrez aos Egípcios.
O documento mais antigo, sobre o jogo do xadrez, é provavelmente a pintura mural da câmara mortuária de Mera, em Sakarah (nos arredores de Gizé, no Egito). Ao que parece, essa pintura, que representa duas pessoas jogando xadrez, ou algo semelhante, data de aproximadamente 3000 anos antes da era cristã.
Segundo alguns historiadores do mais autorizados, que se dedicaram ao assunto, parece que seu berço foi a Índia, aonde teria surgido por volta do século V ou VI de nossa era, derivado de antiqüíssimo jogo hindu que é conhecido por "Chaturanga", isto é 4 lados. Daí teria passado à Pérsia aonde foi buscar o mundo islâmico, que por sua vez o transmitira à Europa por duas vias distintas: Segundo uns, pela invasão muçulmana da Península Ibérica, e segundo outros, durante seu confronto Ocidente-Oriente quando da Primeira Cruzada.
Garry Kasparov, o maior campeão da história do Xadrez.
No Brasil, o jogo existe desde 1808, quando D. João VI ofereceu a Biblioteca Nacional, no Rio de Janeiro, um exemplar do primeiro trabalho impresso sobre a matéria, de Autoria de Lucena.
Muitas histórias pitorescas têm sido contadas a respeito da origem e história do xadrez. A verdade sobre sua origem é realmente desconhecida. Podemos remontar à história do jogo até 3000 anos antes de nossa era e aí perdemos o fio, como ocorre com muitos outros acontecimentos na história. O xadrez, sabemos, não foi sempre jogado como o é hoje. Na Europa, a última mudança ocorreu uns 100 anos antes. Até recentemente ele era disputado sob regras diferentes em diferentes países e entre raças diferentes, orientais e ocidentais. Anos atrás, enquanto jogava uma partida amistosa com o Emir da Transjordânia, verifiquei estar ele acostumado a fazer o roque de maneira distinta da nossa; e há pouco tempo Mir Sultan Khan, o principal enxadrista da Grã-Bretanha, embora nativo da Índia, me informou ter aprendido a jogar xadrez sob regras bastante diferentes: o roque era totalmente distinto do nosso e os peões só podiam alcançar uma casa de cada vez, enquanto em nosso xadrez os peões podem adiantar-se duas casa no primeiro lance. Sem dúvida, noutros lugares, outras diferenças existiram, mas a influência européia prevaleceu e finalmente, pode-se afirmar, o xadrez tornou-se passatempo universal sob as mesmas regras em toda parte.
Tal como é jogada atualmente, o xadrez, não há dúvida, é Medieval em seu caráter. Semelha uma guerra convencional e um jogo da corte, conforme pode ser visto pelos nomes e ação das peças. Foi jogo dos reis e hoje é o Rei dos Jogos. Os peões, pode-se dizer, são os oficiais subalternos, cobrindo e batalhando à frente da cavalaria, dos bispos e personagens da realeza. Os cavalos, bispos, rei e rainha (dama) são auto-explanatórios, enquanto as torres (ou "castles") representam as fortalezas dos nobres. Se todos esses personagens titulados desapareceram de muitos países do mundo, o xadrez permanece como um jogo de distinção social, capaz de exigir da mente humana o mais elevado esforço.
O grande ator Phillipe Noiret e Robin Renucci jogando xadrez no filme "Masques"

Durante muito tempo se pensou fosse o xadrez um passatempo somente para as classes privilegiadas, mas agora o jogo é defendido por educadores e filósofos como excelente treino para qualquer cabeça. É na verdade difícil jogar bem o xadrez, mas é também verdadeiramente fácil aprender os elementos constitutivos do jogo. E quando estes tiverem sido aprendidos, sua prática propiciará mais deleite e satisfação em relação a qualquer jogo conhecido pelo homem.
História do Xadrez
O jogo de Xadrez é um dos jogos ou família de jogos mais populares do mundo. Jogado ao redor de todo o globo, encontra variações históricas e regionais, mas princípios que se repetem.
As primeiras referências ao jogo de Xadrez datam do século VII, do norte da Índia. Aparentemente o tabuleiro quadriculado já era conhecido muitos séculos antes e utilizado para um jogo de dados. Mas é do século VII a citação mais antiga de um jogo que se assemelha com o Xadrez, embora o jogo possa ser mais antigo do que isso.
Era chamado de Chaturanga, ou dividido em quatro, e nele quatro exércitos se enfrentavam no tabuleiro, cada um composto de rei (rajá), elefante, cavalo e barco (ou carruagem) além da infantaria. Em uma de suas versões, um dado determinava qual peça deveria ser movida.
Documentos testemunham a presença de um jogo semelhante na China, dois séculos mais tarde. Não se sabe se o jogo chinês evoluiu do Chaturanga ou se ambos vieram de um ancestral comum. É até possível que o Chaturanga tenha vindo do jogo chinês, embora a maioria dos especialistas não aceite essa tese.
 
Da Índia o jogo percorreu um longo caminho até chegar à Europa. Passou pela Pérsia (atual Irã), onde ganhou o nome de Chatrang e algumas modificações. Quando os árabes conquistaram a Pérsia alguns séculos mais tarde, levaram o jogo. Foi entre os árabes que o então chamado Shatranj conheceu um verdadeiro desenvolvimento.
O Xadrez chegou na Europa Medieval possivelmente por intermédio do mundo islâmico via Espanha e Itália, embora isso não seja certo. Espalhou-se por diversas regiões, tomando caminhos diferentes de desenvolvimento e dando origem a inúmeras variantes regionais. Foi só por volta do século XVIII que o Xadrez chegou a sua forma “definitiva”, da maneira como é jogado até hoje.

O filho único de uma rainha da antiga Índia morreu assassinado, e nenhum súdito tem coragem de informá-la de que o trono já não tem herdeiro. Um filósofo é chamado para resolver o impasse. Sua solução vem na forma de um tabuleiro quadrado, dividido em 64 quadrados menores, e 32 figuras entalhadas em madeira – as peças de um novo jogo, o xadrez, cujo objetivo é levar o rei à morte no xeque-mate. O filósofo joga uma partida com um discípulo diante da rainha. Quando o jogo chega ao fim, com um dos reis caídos, ela compreende: "Meu filho está morto". Essa velha lenda sobre a origem do xadrez revela uma das características mais intrigantes do jogo: o movimento regrado das peças nos limites geométricos do tabuleiro parece capaz de representar as realidades mais caóticas do mundo exterior, como o assassinato de um príncipe. Para os interessados em entender essa riqueza simbólica do xadrez, O Jogo Imortal (tradução de Roberto Franco Valente; Jorge Zahar; 312 páginas; 49 reais), do jornalista americano David Shenk, é uma bela introdução, ao mesmo tempo fascinante e acessível.
Com regras um tanto diferentes das atuais – algumas peças se moviam mais lentamente –, o xadrez surgiu por volta do século V ou VI, provavelmente na Pérsia (atual Irã). No século VII, a Pérsia foi incorporada ao império islâmico, que divulgou o jogo por seus vastos domínios. E foi daí que ele chegou à Europa medieval. Um tratado moral do monge Jacobus de Cessolis, no século XIII, tornou-se muito popular ao utilizar as peças do xadrez como alegoria da sociedade medieval. Aliás, as peças que se usam ainda hoje seguem fiéis ao imaginário da Idade Média: peão, torre, cavalo, bispo, rainha e rei. No entanto, o xadrez, com suas propriedades racionais, foi o jogo preferido de iluministas como Voltaire. Benjamin Franklin recomendava o jogo para fixar valores morais e intelectuais como a perseverança e a precaução. O xadrez, portanto, serviu igualmente aos moralistas medievais e aos fundadores da revolucionária república americana.


Há algumas razões objetivas para que o xadrez tenha se universalizado como metáfora ou matriz para as mais diversas atividades (veja o quadro na pág. ao lado). O resultado de uma partida depende exclusivamente da habilidade dos jogadores. Trata-se, portanto, de um jogo que exalta o livre-arbítrio, e não o acaso ou destino, como os dados. Também é uma disputa transparente, em que toda a informação necessária para chegar à vitória está colocada à vista de ambos os contendores – ao contrário do pôquer, em que impera o blefe. E, a despeito dessa clareza, é um jogo cujas propriedades matemáticas apontam para o infinito: depois de apenas quatro lances, o número de configurações possíveis no tabuleiro chega a 315 bilhões – e até o fim da partida salta, em progressão geométrica, para os trilhões de trilhões de trilhões. Em O Sétimo Selo, filme do sueco Ingmar Bergman, um cavaleiro joga xadrez com a Morte. Não poderia disputar outro jogo: o xadrez é um flerte com o infinito.
Em casos extremos, é também um namoro com a loucura. O Jogo Imortal documenta vários casos de campeões do xadrez que se viram assolados pela doença mental. O austríaco Wilhelm Steinitz, cujo estilo "científico" foi inovador no século XIX, chegou a dizer que jogara xadrez com Deus – e ganhara. Teve de ser internado em um asilo para doentes mentais. O caso mais famoso da loucura do xadrez é o americano Robert Fischer, que venceu sua primeira partida profissional aos 13 anos, em 1956. Desde cedo devotado exclusivamente aos mais intricados problemas enxadrísticos, Fischer tinha dificuldades em manter uma conversa que não versasse sobre xadrez. Em 1972, tornou-se o primeiro americano a conquistar o campeonato mundial, quebrando a hegemonia dos soviéticos. Mas, depois da vitória histórica sobre o russo Boris Spassky, Fischer retirou-se da vida pública e não quis competir para manter o título mundial. Sua crescente instabilidade emocional chegou ao limite da paranóia. Em 11 de setembro de 2001, logo depois dos atentados nos Estados Unidos, concedeu uma entrevista a uma rádio das Filipinas para manifestar, em discursos nervosos e torrenciais, seu apoio aos terroristas.
Ainda não existe uma teoria convincente para explicar o grande número de malucos entre os gênios do xadrez. Mas é seguro dizer que o xadrez por si só não causa doenças mentais. David Shenk afirma, ao contrário, que o jogo traz vantagens para os diletantes (como ele mesmo). Seria um método sem igual para desenvolver o raciocínio abstrato. A sugestão deve ser temperada por uma das tiradas céticas de Millôr Fernandes: "O xadrez é um jogo que desenvolve a inteligência pra jogar xadrez". A máxima vale até para a inteligência artificial: um grande marco nas pesquisas da área foi o Deep Blue, o primeiro computador a derrotar um campeão de xadrez, Garry Kasparov. E, de certo modo, explica o fascínio que o jogo sempre exerceu sobre escritores como Vladimir Nabokov e artistas como Marcel Duchamp. Como uma obra de arte, um jogo de xadrez é um universo auto-suficiente, contido em si mesmo – e que no entanto pode representar o mundo.